Diplomati magistrale: l’audizione del Miur. Cosa succederà? Il corsivo

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Trovo quanto mai banale che, dopo mesi di annunci, slogan e campagna elettorale si dica che “le sentenze si rispettano”. Tanto banale, lo dico con amarezza estrema e senza voler offendere nessuno, da provarne lo stesso interesse per le interviste, parimenti insignificanti, dei giocatori di calcio dopo le partite. Mi chiedo sempre che senso ha intervistarli per fargli le stesse domande alle quali si danno, sempre, le stesse risposte: “dobbiamo lavorare di più seguendo le indicazioni del mister perché quella è la strada giusta”, polemica più, polemica meno, si intende.
Be se oggi, dopo mesi di analisi, pareri illuminati e proclami ci si limita ancora a dire, come il più istituzionale dei capitani di una squadra di calcio, che “rigore è quando arbitro fischia”, stiamo tutti perdendo tempo.
Non tutti gli attori di questa massacrante partita, ma l’Italia. L’Italia sta perdendo tempo.
In perfetto stile nazional popolare, peraltro, altri 120 giorni per decidere come già era stato deciso. Prima ancora 150 giorni per l’attesa di un parere che decise quanto già scontatamente tutti sapevano che doveva dire.
E allora, giusto per non continuare ad annoiarvi con metafore calcistiche, il problema serio è, come sempre, semplicemente legato ad una diversa prospettiva.
Le sentenze, da parte dei cittadini, si rispettano, sempre.

Lo Stato, tuttavia, con accanto i Giudici, ben separati dal suo potere, ha il dovere di comprendere se quella sentenza è giusta o sbagliata. Tutto qui. Orbene quella sentenza è, semplicemente, sbagliata. Come tale, inaccettabile per chi chiedeva giustizia.
Non può essere compresa come giusta una decisione che, nonostante esista una Legge dello Stato che chiarisca che i soggetti in possesso di abilitazione abbiano diritto di entrare in Gae, dica che quell’abilitazione non è invece buona a tal fine. Ed è l’unica tra le abilitazioni a
non essere buona. Pur chiamandosi sempre abilitazione. Peraltro senza citare questa Legge e le precedenti sentenze che bene, contrariamente, ne davano atto.
Se quella norma, a differenza di quanto avevano detto le 8 sentenze precedenti passate in giudicato, non sia ‘buona’ per regolare quel caso, v’e’ il dovere di dirlo, spiegarlo, illustrarlo. Solo così il cittadino può comprendere come giusta una decisione.
Non è dunque il problema che si vinca o che si perda.
Su altri aspetti, tipicamente processuali e su cui non vi annoio, la sentenza della Plenaria è giuridicamente ineccepibile. Non condivisibile per le nostre tesi, ma certamente portatrice di una tesi sostenibile: i diplomati dovevano agire nel 2007. Non lo hanno fatto e sono decaduti: lo Stato avrebbe quanto meno ammesso di aver dovuto chiedere scusa a questi docenti perché mai, sino al nostro ricorso straordinario del 2011 vinto nel 2014, gli aveva detto che potevano agire.
Sarebbe stato un altro il Giudice a cui chiedere giustizia (quello del lavoro per capirci), ma non si sarebbe negato ciò che una norma dello Stato, in maniera cristallina, dice.
Si rifletta, dunque, su quanto è giusto quanto è stato fatto. Si eviti di trincerarsi dietro vuote formule istituzionali.
Si eviti di demandare, ancora, ad altri Giudici di decidere cosa è giusto.
Il Legislatore torni a fare il Legislatore facendo, semplicemente, Leggi giuste. Noi continuiamo a guardare avanti, con una diversa prospettiva; difendendo, sino all’ultimo Giudice possibile, diritti.