La disciplina che regola l’accesso ai ruoli del personale docente nel sistema scolastico italiano è da tempo caratterizzata da una notevole complessità e da una stratificazione normativa che, non di rado, genera contenziosi in merito all’interpretazione dei requisiti di partecipazione alle procedure concorsuali. Al centro del dibattito si pone la tensione tra l’esigenza della Pubblica Amministrazione di applicare criteri di selezione oggettivi e uniformi e la tutela delle posizioni giuridiche soggettive di candidati che, pur in possesso di una solida preparazione e di una comprovata esperienza, rischiano l’esclusione per un’interpretazione eccessivamente formalistica della *lex specialis*. Una recente e significativa pronuncia del Consiglio di Stato (Sez. VII, sentenza n. 1925/2025) si inserisce in questo solco, offrendo un’importante chiave di lettura orientata alla valutazione sostanziale delle competenze e alla valorizzazione del principio di ragionevolezza.
Il quadro normativo di riferimento
Il sistema di reclutamento dei docenti della scuola secondaria è incardinato nel Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 59, il quale stabilisce come requisito generale per la partecipazione ai concorsi il possesso di un titolo di studio (laurea magistrale o equipollente) “coerente con le classi di concorso vigenti alla data di indizione del concorso” 1. Tale coerenza è dettagliata da appositi decreti ministeriali, come il D.M. n. 259/2017, che specificano, per ciascuna classe di concorso, i titoli di studio ammessi e, in taluni casi, gli esami o i crediti formativi universitari (CFU) necessari a integrare il percorso di studi. La normativa, inoltre, riconosce un valore qualificante al servizio prestato, consentendo la partecipazione alle procedure concorsuali anche a coloro che, pur in possesso del solo titolo di studio, abbiano maturato un’esperienza di insegnamento di almeno tre anni scolastici 12. Si delinea così un sistema che, almeno sulla carta, tenta di bilanciare il titolo accademico con l’esperienza professionale maturata sul campo.
La rigidità dell’approccio formale e la sua critica
Nonostante la pluralità delle vie di accesso, l’Amministrazione scolastica tende sovente ad adottare un approccio rigorosamente formale nella verifica dei requisiti. Ciò si traduce nell’esclusione automatica dei candidati il cui piano di studi universitario sia privo anche di uno solo degli esami specificamente indicati dalle tabelle ministeriali, senza procedere a una valutazione comparativa o sostanziale del percorso formativo nel suo complesso. Tale prassi, se da un lato risponde a un’esigenza di certezza e di parità di trattamento formale, dall’altro può condurre a esiti palesemente irragionevoli e ingiusti, come evidenziato nel caso portato all’attenzione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 1925/2025. In tale vicenda, un docente veniva escluso dal concorso per la classe A-01 (“Arte e immagine”) poiché, pur essendo in possesso di una “Laurea in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali”, il suo piano di studi mancava degli esami di “grafica” e di “percezione e comunicazione visiva”, richiesti dalla normativa di riferimento.
La svolta sostanzialistica del Consiglio di Stato
Riformando la decisione di primo grado, il Consiglio di Stato ha censurato l’operato dell’Amministrazione, promuovendo un’interpretazione della lex specialis orientata alla sostanza più che alla forma. I giudici di Palazzo Spada hanno osservato che un bando di concorso che fa riferimento a “percorsi di studio diversi ma analoghi” e alla “coerenza” dei titoli impone all’Amministrazione una “necessaria ponderazione” circa le possibili equivalenze dei percorsi formativi, che non può esaurirsi in una mera verifica nominalistica degli esami sostenuti.
Il Collegio ha proceduto a un’analisi sostanziale del corso di laurea posseduto dal ricorrente, concludendo che esso, per sua natura, implica necessariamente le competenze richieste per l’insegnamento della disciplina in oggetto. “…Il complessivo corso di laurea in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali presuppone, necessariamente, un approccio grafico e visuale necessario alla conservazione, valutazione e migliore fruizione dei beni di interesse artistico, storico e culturale, e quindi una competenza e sensibilità professionale necessariamente estesa, anche ai fini dello svolgimento degli insegnamenti in esame, alla capacità di espressione e di percezione critica anche mediante la grafica e il linguaggio visivo…”. Viene così affermato un principio di approccio alla valutaizone dei titoli di fondamentale importanza: l’Amministrazione, a fronte di titoli di studio affini a quelli espressamente previsti, ha l’onere di compiere un’istruttoria approfondita, valutando se le competenze richieste dal bando siano comunque assicurate dal percorso formativo del candidato nel suo complesso. La mancata effettuazione di tale valutazione comparativa integra un vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria e irragionevolezza.
Il valore del servizio pregresso e la tutela del legittimo affidamento
A “comprova” della fondatezza della propria tesi, il Consiglio di Stato valorizza un ulteriore elemento: la “lunga pregressa esperienza dell’appellante quale insegnante supplente delle stesse materia”. Tale esperienza non assume solo la valenza di un mero titolo valutabile, ma diviene un indice sintomatico della sussistenza della professionalità richiesta e, soprattutto, il fondamento di un legittimo affidamento meritevole di tutela.
Secondo i giudici, sarebbe contrario ai principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), nonché alla tutela dei lavoratori precari di matrice eurounitaria, consentire a un’amministrazione di avvalersi per anni delle prestazioni di un docente a titolo precario, per poi escluderlo dalla procedura di stabilizzazione sulla base di una pretesa carenza di requisiti professionali. Un simile agire si paleserebbe non solo “lesiva dell’affidamento suscitato nel lavoratore precario”, ma anche del “preminente diritto degli studenti […] a ricevere un insegnamento svolto da insegnanti […] muniti delle necessarie competenze”. L’argomento del Consiglio di Stato sposa, in qualche modo, il rilievo e la valorizzazione data al servizio da tempo immemorabili con costanti interventi legislativi specifici al mondo della scuola che hanno portato a stagioni di concorsi straordinari ove il servizio pregresso è particolarmente valorizzato se non decisivo ai fini dell’ammissone.
In passato, nell’ambito di altro concorso straordinario di reclutamento, lo stesso Consiglio di Stato aveva inaugurato un altro tentativo di approccio sostanzialistico alla verifica dei titoli di accesso, portanto all’esame della Consulta il caso del dottorato di ricerca e la sua corrispondenza con l’abilitazione (Sez. VI, Pres. Santoro, est. Gambato Spasiani, ord. 3 settembre 2018). Il dottorato di ricerca infatti, come ritenuto anche da questo Giudice, fra le molte, nella sentenza Sezione VI 28 luglio 2017 n.3797, rappresenta il più alto titolo di studio previsto dal nostro ordinamento, poiché -come previsto dall’art. 4 comma 1 della legge del 3 luglio 1998 n. 210, che gli ha conferito l’assetto attuale- fornisce «le competenze necessarie per esercitare … attività di ricerca di alta qualificazione». Al di là poi di tale dichiarazione di principio, il dottorato, ovvero la semplice frequenza al relativo corso, abilita all’insegnamento presso le università, ovvero presso il corso di istruzione immediatamente superiore alla scuola secondaria, ai sensi dell’art. 4 comma 8 della legge del 3 luglio 1998 n.210, per cui «Le università possono, in base ad apposito regolamento, affidare ai dottorandi di ricerca una limitata attività didattica sussidiaria o integrativa che non deve in ogni caso compromettere l’attività di formazione alla ricerca». È del tutto evidente che le limitazioni previste da tale norma sono dettate unicamente dalla necessità che il tempo dedicato alla docenza non vada a discapito della ricerca, cui il dottorando deve per definizione dedicarsi, e non denotano in alcun modo un livello inferiore della docenza impartita dal dottorando stesso. Appare pertanto illogico che nel più, ovvero l’abilitazione all’insegnamento nell’università, istituzione di grado superiore, non sia compreso il meno, ovvero l’abilitazione all’insegnamento della stessa materia nell’istituzione di grado inferiore, ovvero la scuola superiore”.
Disparità di trattamento e obblighi conformativi
La decisione in commento ravvisa nell’esclusione del candidato anche una “ingiustificata disparità di trattamento” rispetto a titolari di altri corsi di laurea ammessi direttamente, pur in presenza di una sostanziale equiparabilità delle competenze professionali. L’accoglimento dell’appello comporta, di conseguenza, l’annullamento del provvedimento di esclusione e l’insorgere di un preciso “obbligo dell’amministrazione di ammettere l’appellante alla procedura di stabilizzazione”. L’effetto conformativo della pronuncia impone dunque all’Amministrazione di riesercitare il proprio potere in conformità con i principi affermati dal giudice, garantendo l’effettività della tutela giurisdizionale, in linea con un principio consolidato secondo cui l’annullamento di un’esclusione illegittima deve, di regola, produrre effetti retroattivi.
Conclusioni
La sentenza n. 1925/2025 del Consiglio di Stato rappresenta un importante punto di riferimento nella dialettica tra legalità formale e giustizia sostanziale nell’ambito del reclutamento scolastico. Essa segna un passo significativo verso il superamento di un approccio burocratico e formalistico, che rischia di sacrificare professionalità qualificate sull’altare di una rigida e non sempre ragionevole applicazione delle norme. Promuovendo una valutazione olistica e sostanziale dei percorsi formativi e professionali, la giurisprudenza amministrativa riallinea l’azione della P.A. ai principi costituzionali di ragionevolezza, imparzialità (art. 3 e 97 Cost.) e di accesso agli uffici pubblici in base al merito (art. 51 Cost.). L’auspicio è che tale orientamento possa consolidarsi, inducendo l’Amministrazione a dotarsi di criteri di valutazione più flessibili e ponderati, capaci di riconoscere la reale competenza dei candidati al di là delle mere etichette nominalistiche dei titoli posseduti.